L'arte insegna all'uomo la responsabilita' della creazione.
Quando diventa una preghiera, la divinita' interiore e' risvegliata.

Satvat

sabato 31 luglio 2010

L'arte della visione 2

Nella Natura l'immagine visiva è manifestazione di una realtà vivente, ed ha la facoltà di attrarre in modi specifici. E' nota ad esempio l'attrazione dei colori (ma anche delle forme, pur se queste hanno altre specificità funzionali) nei rituali della sessualità, sia quella di un fiore, di un animale, o di un essere umano. L'immagine naturale seduce, avverte, determina vicinanza o repulsione; l'immagine dell'Arte deve avere una risonanza ben più che naturale, capace di ispirare un brivido spirituale, una percezione raffinata che susciti tramite l'esperienza individuale dell'artista un'universalità condivisibile. Affinché ciò possa verificarsi, l'artista deve addentrarsi nei codici dell'esperienza naturale, risalendone il flusso sino alla sorgente. Una volta là, l'immagine scaturisce con la pura forza dell'intuizione: non è più un'immagine naturale bensì trasfigurata, una allusione manifesta di un mistero inesprimibile. L'artista è risalito al regno inesplicabile delle matrici, per cui la sua esperienza formativa dell'immagine è corroborata da un senso ancestrale che resta ineffabilmente evocativo su molteplici livelli. Una tale immagine è un'icona aperta, che propaga i segreti dell'intuizione.

Perciò non ha senso dipingere una casa, un viso, un panorama, per quanto il segno sia accurato e rispondente, se quella immagine non è infusa nel magma archetipale della matrice. Per questo i grandi artisti moderni (e non solo loro) hanno risolutamente negato l'apparenza per risalire come salmoni il flusso misterico dell'Ispirazione. Hanno ricercato la realtà nebulosa ma straordinariamente potente della matrice, dell'alfabeto segnico primevo dell'immagine. Procedendo dal dentro al fuori (come diceva Pollock) si persegue l'incedere naturale, ma con una brillantezza intuitiva che incorona l'artista come il testimone consapevole del segreto formativo e visionario del Tutto.

venerdì 16 luglio 2010

L'arte della visione


L'arte di vedere è prerogativa nobile ed irrinunciabile dell'essere umano. Consiste nel saper cogliere, con occhi limpidi, la verità di ciò che è, e la cosa è ben più complessa e significativa di quanto la nostra abituale attitudine all'ovvietà sappia mostrarci. Mediante gli occhi fisici, guardiamo con gli occhi dell'anima che sanno penetrare la ferma apparenza oggettuale sino a cogliere la vitalità interiore. Infatti la verità della visione non si ferma a ciò che è superficialmente omologato, ma scandaglia profondità misteriose. La dimensione di ciò che è visto, se è cosa vivente, non è affatto univoca e standardizzabile, ma si estende su molteplici livelli; perciò il nostro saper vedere ci porta a sperimentare come l'arcano esistenziale può essere percepito.

L'arte della visione ci conduce più vicini al mistero del vivente, ed è quindi una risorsa spirituale che può arricchire e maturare la nostra anima. Tutto questo è spontaneo ma affatto automatico. Può essere colto con occhi innocenti, aperti alla scoperta ed allo stupore, ma il problema è che i condizionamenti e l'abitudine offuscano gravemente la potenzialità visionaria dei nostri occhi, che iniziano ad agire non più come finestre dell'anima, bensì come organi asfittici, capaci di ricevere solo immagini plastificate. Perciò l'arte della visione, pur se è una nostra facoltà naturale, dev'essere insegnata, appresa e praticata.

Questo dovrebbe essere uno dei compiti fondamentali dell'Arte visiva: suggerire delle immagini che siano state coltivate, sviscerate e raffinate nell'esperienza visionaria dell'artista. L'immagine dell'Arte dovrebbe essere tanto fermentata nell'anima da divenire un vino capace di favorire l'ebbrezza della profondità della visione, un simbolo intraducibile in grado di scatenare la magia dell'assonanza con ciò che l'autore ha intuitivamente elaborato. Ovviamente sia l'artista che il pubblico dovrebbero essere educati a questo; dovrebbe essere chiaro che il fine dell'Arte visiva è quello di favorire esperienze spirituali della visione.

Se questa è stata la profonda esigenza dei padri fondatori dell'Arte Moderna, da lungo tempo (aimè!) si è scambiato il valore aureo della visione con la falsa moneta del concetto; ossia si attribuisce significato non a ciò che è reale, e che quindi può essere esistenzialmente sperimentato, ma ci si ingegna a creare realtà artificiali che sono proiezioni rese visibili dei fantasmi che agitano la mente. L'artista contemporaneo, in larga misura, non si impegna più nell'arte della visione, che potrebbe approfondirlo nell'interiorità universale del vivente, ma indulge nelle pastoie risibili del pensiero, con la somma arroganza di conferire loro un significato arbitrario. (segue)

martedì 6 luglio 2010

Artisti che amo: Mark Tobey

Parlando di Mark Tobey ho l'impressione di parlare di un intimo amico, tanto sono simili, alla radice, le nostre ricerche artistiche ed esistenziali. In qualche modo mi accorgo che le mie forme caleidoscopiche sono fiorite dallo stesso spazio pittorico che egli aveva meditativamente calligrafato. Seppure ciò può non essere evidente ad un primo sguardo, il fraseggio dell'anima in espansione è il medesimo, e scaturisce da simili comprensioni spirituali; per questo posso trovare nella sua pittura così tante risonanze e coincidenze, ad esempio con ciò che ho sperimentato nel tema di “universal web”.

La ricerca di Mark Tobey è nata da un'esperienza spontanea di non-mente. Era il 1918 e si era appena sparsa la notizia della fine della 1 guerra mondiale; egli scese in strada e si unì alla folla festante. L'enfasi celebrativa e collettiva portò la sua consapevolezza ad un apice di congiunzione con il Tutto, facendo svanire i muri percettivi con i quali la mente definisce la ristrettezza dell'io. Per l'intero giorno egli rimase in uno stato di estatica immedesimazione con l'accadere, senza imporre i filtri estranianti della coscienza razionale. Fu uno stato di rapimento mistico, che egli si impegnò a resuscitare nel suo successivo lavoro di artista. Infatti egli intese l'Arte come possibilità d'espandere la consapevolezza, e per realizzarla frugò profondamente in se stesso, avviandosi anche su percorsi coraggiosi che lo condussero in Cina e Giappone, dove praticò la meditazione e l'arte pittorica del Taoismo e dello Zen. In Oriente non cercò però il sogno illusorio di un'alterità, ma le Vie per divenire più autenticamente se stesso, e ne trasse un vibrante “impulso calligrafico”che celebrò con i suoi “white writings”. Paul Klee ebbe a dire che nella pittura di Tobey si assiste alla “genesi della scrittura”, ed infatti i suoi quadri sono arene dell'autocoscienza spirituale del segno.

Artista d'alto profilo, rimase tuttavia al margine della roboante pittura americana del periodo. Tobey era “bilanciato” e meditativo, ed affatto “american macho” (anche per la sua omosessualità socialmente disprezzata), ed inoltre il suo amore per la cultura del “nemico giapponese” era ritenuta sospetta; tutto questo lo alienò per diverso tempo dalle simpatie della critica e del pubblico. Pur dopo i più alti riconoscimenti internazionali, egli è rimasto un po' appartato, vivamente apprezzato ma in circuiti amatoriali; basta vedere quanto poco si è pubblicato sul suo lavoro. Ciò nonostante ha ispirato molti, alcuni dei quali, come Pollock, l'hanno orgogliosamente negato. Il suo insegnamento rimane straordinariamente valido, soprattutto perché intende portare l'anima dell'artista fuori dalla prigione dolorosa dell'io, per danzare con le libere ed estatiche arie impersonali dell'Ispirazione; una profezia che l'Arte contemporanea ha assolutamente bisogno di verificare, per esserne spiritualmente rigenerata.